Il 30 Aprile 1981 si disputava
la quinta tappa del Giro delle Regioni. Da Arezzo, lo stabilimento della
Del Tongo in quel di Tegoleto, fino a San Marino: la frazione chiave di una
competizione contraddistinta, fin lì, dallo strapotere sovietico. L’Unione
Sovietica del ciclismo, diretta col pugno di ferro da Viktor Kapitonov, non
aveva nulla da invidiare – in quanto a talento (bulimico) – alla leggendaria
Sbornaya dell’hockey, lo squadrone di Kharlamov, Maltsev, Fetisov e
compagni. In Italia quella volta, intenti a razziare qualsiasi traguardo,
c’erano Zagretdinov, Mitchenko, Barinov, Kachirin. Tutti campioni. E poi Soukhoroutchenkov, che
faceva storia a sé.
Una
delle tre gare a tappe più prestigiose del mondo dilettanti, le altre due erano
la Corsa della Pace e il Tour de l’Avenir, il Regioni veniva organizzato da
Eugenio Bomboni e L’Unità. Il quotidiano del PCI trovò come sponsor
principale della manifestazione la Brooklyn – cioè la Perfetti – col
fortunatissimo slogan “La gomma del ponte”. Il capoclassifica, sovente uno
dei corridori dell’Armata Rossa, vestiva così i colori biancorossoblu della
bandiera americana… Si correva per nazioni e si faceva maledettamente sul
serio: gli europei dell’est, baionetta fra i denti, dovevano dare sempre il
cento per cento. La loro carriera, prima di rientrare nei ranghi
dell’esercito, durava un quadriennio olimpico. I nostri, gli italiani, i
francesi, i belgi, gli spagnoli, venivano travolti da una vis agonistica
debordante, impietosa.
Quella
mattina il comunista (…) che indossava la maglia “americana” del comando era
Charkid Zagretdinov. Si partì, al solito, alla garibaldina. Fuori
dagli stabilimenti Del Tongo fuggirono subito in tre: l’olandese Hogervost, il
britannico Lawrence e il cecoslovacco Kostadinov. Al primo gipiemme –
Bibbiena – i battistrada avevano tre primi di vantaggio. Salendo verso
Chiusi della Verna, col bulgaro Lozev a bagnomaria nel tentativo di
ricongiungersi con i fuggitivi, la scena madre. Soukho forò. Attese
l’ammiraglia, col plotone allungato a mo’ di fisarmonica, notando l’improvvisa
accelerazione di quelli davanti. In testa c’erano gli azzurri, squadra A e
squadra B insieme, che – accortisi della défaillance meccanica del ras di
Trostnaya – si misero a tirare come se il traguardo fosse dietro
l’angolo. ‘A bloc, Davide Cassani, Giuseppe Petito, Fabrizio Verza, Franco
Chioccioli. Tutti per il capitano Fedrigo, dilettante a vita per scelta.
Sergei,
con la ruota in mano, si arrabbiò. Risalì in sella, furioso, cominciando
la rimonta: saltò un gruppetto dietro l’altro e mise nel mirino il plotoncino
dei migliori. Li affiancò nel tratto più difficile della salita, spingendo
– a una frequenza oltraggiosamente bassa – un rapporto durissimo. Nemmeno
la sua Colnago rossa fosse collegata a un filo invisibile, a una teleferica nel
cielo, passò loro senza degnarli di uno sguardo. Doppiò Lozev e raggiunse
il trio in avanscoperta. Lawrence, sui saliscendi che precedevano il Passo
di Viamaggio, provò – per qualche minuto – a stare in scia al fuoriclasse
sovietico. A cento chilometri dall’arrivo Soukhoroutchenkov rimase da
solo. Sergei proseguì a un’andatura non consentita ai comuni mortali;
dietro, gli inseguitori (?) saltarono in aria. La motostaffetta dei
cronometristi iniziò un curioso andirivieni tra il Merckx del Volga e gli altri. Due,
tre, quattro minuti di distacco. Poi cinque, sei, sette, otto,
dieci. Uno spettacolo: Badia
Tedalda, Novafeltria, le pendici del Monte Titano sbranate dal
biondo. Che, una volta toccati i quattordici minuti di vantaggio, iniziò
ad amministrarsi.
Per noi
occidentali era Soukho, i russi invece lo soprannominarono Soukhar, pane
secco. Figlio di contadini, messo in bici dal fratello maggiore Viktor che
– negli anni Sessanta – fece parte del quartetto della Cento ai
Mondiali. Quelle gambe prodigiose, ipertrofiche, le sviluppò andando a
scuola, pedalando ogni dì dalle parti di Briansk. Lo conoscemmo al Tour de
l’Avenir 1978, che dominò stritolando la concorrenza in montagna e a cronometro.
Erede naturale di quell’energumeno di Aavo Pikkuus, anche nei rapporti
tempestosi col cittì Kapitonov. L’unico periodo di tregua con il
selezionatore fu in vista di Mosca 1980, un percorso folle, tortuoso, perfetto
per esaltare la potenza di Sergei. Il (gran) giorno della prova olimpica
Soukho, favoritissimo della vigilia, fece un numero dei suoi. Partì dopo
un giro e mezzo, si accompagnò a Lang e Barinov nella fase centrale e poi,
nella canicola, li salutò. Centocinquanta chilometri di fuga vincente. Per
assistere a qualcosa di paragonabile, ma non troppo, in una competizione a
Cinque Cerchi, abbiamo dovuto aspettare Londra 2012 e Marianne Vos. Che,
sotto il diluvio, battè Armitstead e Zablinskaya. Olga, medaglia di
bronzo, è uno dei sette figli di Sergei.
A San
Marino, Soukhoroutchenkov firmò un’impresa degna della Cuneo-Pinerolo di
Coppi. Alle spalle del mostro, a distanza siderale, sbucarono Youri
Barinov (a 11’26”) e Giovanni Testolin (a 11’28”). Quarto, a 11’37”,
Mitchenko; il cubano Alonso e Chioccioli precedettero di qualche secondo i
resti del gruppo: a quasi dodici minuti, Petito, Zola, Cardet, Fignon,
Zagretdinov, Riccò, Hekimi, Gorospe e Fedrigo. Sergei corse quel Giro
delle Regioni raggiunto, in Francia, dalla notizia della morte della madre. Fu
l’ultima annata – trionfale – di quel gruppo: Soukho, allontanato da Kapitonov
nel 1982, ritornò due stagioni dopo per inseguire il sogno del bis
olimpico. I Giochi di Los Angeles svanirono a causa del boicottaggio del
blocco orientale, ma si consolò rivincendo la Corsa della Pace con un assolo
lungo l’erta di Karpacz. Il più grande ciclista russo di tutti i tempi
divenne pro a trentadue anni, nel 1989, in un’Alfa Lum nella quale fece da
chioccia ai vari Konychev, Poulnikov, Tchmil.
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